“Dottore, ma è vero che?”: l’empatia narrativa nella comunicazione scientifica

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Articolo di Cristina Cenci su Nòva – Il Sole 24 Ore

Il problema con le fake news è che le notizie possono essere false e spesso purtroppo lo sono, ma le emozioni che le sostengono sono sempre vere.

Per contrastare quindi quelle che oggi chiamiamo “bufale”, ma che nelle scienze sociali sono studiate da decenni come rumors o leggende metropolitane, non basta, come sappiamo, opporre la notizia vera a quella falsa. Occorre entrare nel mondo emotivo di chi ci ascolta. Facile dirlo, molto meno saperlo o volerlo fare.

Ricordo una discussione di qualche hanno fa con una società scientifica che rivendicava il suo diritto a pubblicare in chiaro immagini scioccanti della malattia perché “vere” e scientifiche, senza cogliere che l’impatto di quella visione, spingeva l’incauto visitatore direttamente nelle braccia di molto più accoglienti rimedi naturali.

Talvolta la comunicazione delle associazioni scientifiche conserva toni paternalistici oppure autoreferenziali, o semplicemente pensati per contrastare più che per accompagnare.

Dottore ma è vero che?”, il portale lanciato in questi giorni da FNOMCeO, sembra invece percorrere una strada diversa, che può segnare un cambiamento importante nella comunicazione scientifica della salute online.

Non ho navigato il sito in tutti i suoi contenuti, però almeno tre aspetti mi hanno colpito molto positivamente.

Il primo è lo stile grafico ed editoriale, dal nome del dominio alla home page: amichevole, vicino, accessibile. Tutto assume il punto di vista di chi cerca e non di chi spiega.

Il secondo è il “chi siamo”. Insieme a presidenti di ordini dei medici, giornalisti scientifici, universitari ed editori scientifici, troviamo anche un “debunker” e un’associazione come #iovaccino, che nasce da una pagina facebook di una mamma. Questo è un primo messaggio importante: il web può essere il luogo in cui , nel rispetto dell’informazione validata dalle migliori prove di efficacia ad oggi disponibili, si incontrano attori diversi, capaci di ibridare i linguaggi e di variare le modalità espressive, per adattarle ai diversi registri emotivi.

Il terzo è lo stile delle risposte, capace di empatia narrativa con chi legge. Un esempio è il testo “La chemioterapia fa più male che bene?” di Roberta Villa, medico e giornalista, che da più di vent’anni scrive sulle pagine di Salute del Corriere della Sera.

Vediamolo in analitico. La struttura della risposta si articola in tre aree.

1 – “Da dove nasce questa idea?”. Qui si dà valore all’esperienza che è alla base dell’idea che la chemioterapia faccia più male che bene. Non la si rifiuta o la nega, la si accoglie. “Sono farmaci definiti in maniera esplicita come “tossici”, per i quali occorre attenersi a una rigorosa serie di precauzioni: comprensibile che inquieti l’idea di farseli iniettare nelle vene”.

2 – “Che cosa la smentisce”. Solo dopo aver riconosciuto la legittimità e il valore della domanda, si passa a offrire i dati che mostrano, al contrario, l’efficacia del percorso di cura. Sempre però conservando uno sguardo critico e centrato non solo su cosa faccia bene alla malattia, ma anche alla persona: “Per altri tipi di tumori i risultati sono meno clamorosi, ma hanno contribuito ad aumentare la sopravvivenza globale per cancro. In tutti i casi si tratta di soppesare pro e contro, sia in termini di durata sia di qualità della vita, con o senza chemioterapia: per alcune situazioni, come quelle sopra descritte, i vantaggi della chemioterapia a medio e lungo termine sono indiscutibili, in altre, invece, possono essere meno certi”.

3 – “Perché ci si crede?” Nel finale, la risposta si fa carico del vissuto emotivo che sostiene e alimenta la domanda:“l’idea di iniettare nell’organismo sostanze potenzialmente tossiche e che provocano malessere, in vista di un possibile futuro miglioramento, nei confronti di una malattia che talvolta non provoca ancora disturbi ma è solo una “macchia” nelle immagini radiografiche, va quindi contro il nostro naturale istinto di autoprotezione e sopravvivenza. Anche l’abusata metafora della “guerra contro il cancro”, che vede l’organismo come un campo di battaglia destinato a subire le conseguenze dello scontro tra le proprie cellule “ribelli” – che in fondo però sono parte di sé – e il “veleno” introdotto dall’esterno per sterminarle, potrebbe aver contribuito ad aggiungere un’ostilità inconscia nei confronti di queste cure”.

“Capire l’origine di queste paure…”, ecco cosa serve per comunicare e per informarsi al meglio. Il testo ha una doppia valenza: 1) riconoscere il valore delle paure, per superarle; 2) rassicurarci che le paure non sono solo una nostra incapacità ad affrontare una malattia o una cura, ma possono anche nascere da un immaginario collettivo condiviso che le alimenta. La metafora della guerra resta molto diffusa anche nel linguaggio medico. Elena Semino, linguista dell’Università di Lancaster, ha studiato per anni le diverse metafore usate nel discorso oncologico, mostrandone pro e contro.

In una interessante autoetnografia del suo tumore al seno, Trisha Greenhalgh, punto di riferimento del Rinascimento dell’EBM a Oxford, racconta come all’inizio si sia dovuta confrontare con la rappresentazione culturale della chemioterapia e della sua ambivalenza che porta a chiedersi perché non si possa dire bene della chemioterapia.

L’immunizzazione rispetto alle fake news richiede una grande empatia narrativa. Possiamo essere aiutati ad avere meno paura non solo con le informazioni corrette, ma anche con le metafore giuste per dirle. “Dottore ma è vero che..” ci aiuta nel percorso.

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