di Alessandro Franceschini *
L’avvento dell’innovazione tecnologica può essere considerato come una sorta di farmaco totipotente, che in sé stesso rappresenta una promessa di felicità e una possibilità di soluzione al limite che ci caratterizza. Ma attenzione: il farmaco è qualcosa di ambivalente, allo stesso tempo rimedio, medicina ma anche veleno.
L’origine della filosofia, tradizionalmente, viene identificata nel “thauma” aristotelico, corrispondente al concetto di “meraviglia”. Ma in realtà il termine greco, nel suo significato più autentico vuol dire “terrore”, “angosciante stupore”. Pertanto la filosofia, come ci ricorda Nietzsche, quasi a rappresentare un tentativo agonistico volto a dominare l’orrore, si erge quando qualcosa di terribile minaccia di farci inabissare nel suo fondo senza fondo[1]. E lo stupore raggelato, in questo caso, è dovuto alla costatazione del rischio che grava sulla nostra vita, all’eterna sofferenza e contraddizione che scorre senza sosta nel fiume dell’esistenza.
Nello sviluppo della storia dell’uomo, molteplici sono stati i tentativi di dominare e reagire all’orrore primigenio. Così anche la tecnica, come la filosofia, nasce in fin dei conti come riflesso alla medesima angoscia. Il concetto greco di “téchne” infatti è molto antico e in origine veniva usato per indicare una prerogativa degli dei di cui è stato fatto dono agli uomini per sopperire alla loro intrinseca debolezza[2].
A ben pensarci, nella nostra vita quotidiana, l’esperienza che più di ogni altra ci pone di fronte al nostro limite è la malattia. E per dominare nello specifico la malattia, è nata la medicina. Oggi, più che in altri periodi del suo sviluppo, la medicina per curare l’uomo viene esercitata nell’ambito della tecnica, esplicitando in qualche modo, la già richiamata origine comune di ogni attività umana correlata alla gestione dell’angoscia primordiale.
In tale prospettiva è facile considerare l’avvento dell’innovazione tecnologica come una sorta di farmaco totipotente, che in sé stesso rappresenta una promessa di felicità e una possibilità di soluzione al limite che ci caratterizza. Ma attenzione: il farmaco è qualcosa di ambivalente. La parola “pharmakon” in greco, vuol dire “rimedio, medicina”, ma anche “veleno”. La differenza nell’effetto che il farmaco può provocare sta tutta nel dosaggio e nell’utilizzo.
In questa prospettiva allora, anche l’uso della tecnologia più avanzata, come il digitale o l’intelligenza artificiale, può rappresentare per la vita dell’uomo qualcosa di positivo ma anche di pericoloso e, quindi, non possiamo prescindere da una riflessione critica e sistematica circa l’uso di questi nuovi mezzi per il bene di noi stessi e degli altri dei quali siamo chiamati a prenderci cura. Bene, dunque, prospettare un nuovo umanesimo digitale, ma che sia un umanesimo in grado di custodire l’umanità e non di stravolgerla.
[1] R. Fabbrichesi, Cosa si fa quando si fa filosofia?, Cortina Raffaello, 2017, p. 1
[2] Esiodo, Opere e giorni, vv. 109
*Alessandro Franceschini, dottore in Filosofia con un master in Medicina Narrativa, si occupa di Medical Humanities e insegna Filosofia Sistematica presso l’ISSR de L’Aquila collegato alla Pontificia Università Lateranense.