Il rituale terapeutico è una componente fondamentale dell’efficacia di un percorso di cura. E non lo dicono solo gli antropologi ma anche i neurofisiologi e i farmacologi.
Da neurofisiologo, Fabrizio Benedetti racconta la cura come un rituale in cui non si somministrano solo farmaci ma anche spazi, odori, colori, parole del medico, cioè stimoli sociali e simbolici. Il placebo non è semplicemente un farmaco finto, è l’insieme di questi stimoli. È questo rituale che contribuisce a creare l’impatto positivo della cura, l’effetto placebo, o anche negativo, l’effetto nocebo, perché le parole e i simboli possono curare ma anche ammalare.
La visita medica comporta il varcare di una serie di soglie, l’entrare progressivamente in un contesto carico di simboli: la sala d’attesa, le porte chiuse, l’infermiere che media l’ingresso, la postura del medico, il linguaggio corporeo, la divisa medica, la svestizione e vestizione del paziente, gli oggetti presenti nella stanza. E potremmo continuare. Non sempre il rituale è efficace nel contribuire ad effetti placebo, gli stessi simboli possono determinare effetti nocebo. Il medico che non alza lo sguardo, tempi di attesa troppo lunghi e così via. Ma in ogni caso il dispositivo rituale è in atto e definisce l’atto di cura come qualcosa di totalmente distintivo dal consiglio di un amico.
“Quando il paziente giunge in presenza del medico, l’immagine di quest’ultimo come detentore di un potere particolare è rafforzata da una moltitudine di segni che vengono ad assumere il carattere di simboli culturalmente stabiliti, i quali identificano il luogo stesso con l’attività terapeutica”. (Gesti di cura, pag. 315)
Continua a leggere l’articolo “Il rituale dell’atto terapeutico nella telemedicina” di Cristina Cenci su Nova IlSole24Ore