Nel mondo circa 50 milioni di persone soffrono di Demenza – più della metà sono affetti da Alzheimer. Pensare, ricordare e ragionare deteriorano gradualmente in tali soggetti, nell’impotenza generale, quella del malato e quella di familiari e caregiver. È possibile per la tecnologia intervenire e poi migliorare il percorso di diagnosi, cura e di assistenza?
Articolo su Digital Health Italia
Il caso: Jennifer Bute
Come nel caso di Jennifer Bute, medico di base di 72 anni. Jennifer ha dovuto abbandonare la professione all’età di 58 anni. Solo 5 anni più tardi le hanno diagnosticato la Demenza. All’inizio dimenticava solo le password e nessun altro medico ha ritenuto opportuno indagare sulle ragioni. Poi è toccato ad indirizzi, posti e persone. Solo più tardi è riuscita a convincere uno specialista a fare dei test, che hanno poi confermato la sua diagnosi: demenza senile.
È stata una fortuna per Jennifer che lei fosse un medico e che abbia potuto riconoscere i sintomi della Demenza da sola. Molte persone non sono così fortunate. Non si conoscono ancora le cause della malattia. Probabilmente includono una combinazione di fattori genetici, ambientali e legati allo stile di vita.
È possibile per la tecnologia intervenire e poi migliorare il percorso di diagnosi, cura e di assistenza?
Io credo di sì.
I think the main frustration is that if you want to make a diagnosis, you’ve got to spend a lot of time with the patient, going through their history and examining them, and arranging brain scans and that sort of thing. If a person has had a heart attack, there are tests you can do that show quite conclusively that this person has had a heart attack. We can’t do that with Alzheimer’s disease yet. Professor Gordon Wilcock, Oxford Institute
Un numero crescente di prove indica che i cambiamenti cognitivi, comportamentali, sensoriali e motori possono precedere di diversi anni la manifestazione clinica della malattia.
La tecnologia non può – per ora – supportare nella definizione di una cura, ma può assistere nel mantenimento della salute cognitiva, grazie all’apprendimento di cose nuove e connessioni sociali che potrebbero rallentare o impedire lo sviluppo della malattia.
Andrebbero sfruttati tutti i dati raccolti negli ospedali, biobanche, registri di prova, e via dicendo. Pochissimi, però, sono i paesi in grado di collegare regolarmente più di tre di questi set di dati.
Le ragioni sono molteplici. Tra tutte la mancanza di fiducia.
Si tende a dire che c’è un rischio di uso improprio, o di violazione della privacy o altro, piuttosto che pensare al rischio per la ricerca, ma anche per la sorveglianza, per una migliore gestione del sistema sanitario e l’empowerment del paziente. I potenziali rischi derivanti dal mancato utilizzo dei dati non sono stati discussi altrettanto bene. Francesca Colombo, capo della Divisione Sanità dell’OCSE.