Parole che curano, lezione 6 Cristina Cenci: «Così il digitale aiuta la medicina narrativa»

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Narrazioni digitali: pratiche e sfide. Su questo tema si snoderà la sesta lezione del corso “Parole che curano”, lunedì 4 dicembre al Campus est di Lugano (inizio alle 18, con ingresso libero). Il corso è promosso dalla Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI) con la Divisione Cultura della Città di Lugano e con IBSA Foundation per la ricerca scientifica, e con la collaborazione artistica del LAC (Lugano Arte e Cultura).
Relatrice della serata sarà Cristina Cenci, antropologa, senior partner dell’Istituto di ricerca Eikon e fondatrice della Digital Narrative Medicine (DNM), una piattaforma digitale per l’applicazione di metodologie narrative nei percorsi assistenziali. «Questo strumento – spiega Cenci – vuole rispondere a un’ingiustizia epistemica (come si dice in termine tecnico, cioè legata alla sfera della conoscenza, ndr), ovvero al fatto che quando entrano in un percorso di cura le persone non sono messe nella condizioni di valorizzare il proprio patrimonio di conoscenze e i propri bisogni. Se non vengono applicati “modelli narrativi” della cura, le parole del malato rischiano di essere considerate di minor valore rispetto a quelle del curante».

Che cosa si può fare per cancellare, o almeno attenuare, questa ingiustizia?

«Le persone oggi vogliono partecipare attivamente alla costruzione del proprio percorso di cura – risponde Cenci. – Per poter curare, le parole devono innanzitutto essere condivise e riconosciute, ed è importante anche cambiare le parole che utilizziamo, perché questo può aiutarci a rimettere in discussione modelli che non hanno funzionato. Sembrerà strano, ma una delle espressioni che cambierei è “il paziente al centro”. La  sostituirei con “la relazione al centro”. Troppo spesso, infatti, “il paziente al centro” rievoca e si associa all’idea del “cliente al centro”, facendoci pensare che ci sia un solo soggetto da soddisfare. È invece importante una costruzione condivisa della storia di cura, che valorizzi le conoscenze, i vissuti,  le aspettative sia del curante che del paziente. Siamo abituati ad attribuire “il sapere” al medico e “il bisogno” al malato. In realtà, pur nelle importanti differenze, anche il paziente è portatore di un sapere di valore, così come il medico è portatore di aspettative ed esigenze. Il curante non è un erogatore di servizi a un cliente. È un potenziale mediatore di vita e di morte. Le sue parole e i suoi gesti hanno un fortissimo impatto emotivo».

Ma cosa c’entra il digitale con tutto ciò? E perché portare le tecnologie digitali della narrazione all’interno della pratica di cura? 

«Per molti anni ho realizzato una netnography, cioé una etnografia (uno studio) dei canali digitali di comunicazione, osservando le diverse dinamiche all’interno dei gruppi di pazienti online e analizzando le storie condivise. Prima del digitale, certamente esistevano i gruppi di mutuo aiuto, ma non erano molto accessibili e diffusi. In più l’interazione “in presenza”, quando si tratta di patologie invalidanti, può essere talvolta problematica. Il mondo digitale consente di entrare in connessione con le persone, e non solo con le malattie. Facilita la condivisione di esigenze, bisogni, emozioni che spesso non si riesce a condividere nel mondo “analogico” (cioè al di fuori delle tecnologie digitali). Un esempio è rappresentato dalla community parolefertili.it, che ho creato qualche anno fa, grazie anche al contributo incondizionato ma appassionato della IBSA Foundation. È una comunità di story sharing, in cui si dona la propria storia per elaborare il proprio vissuto e per aiutare chi sta attraversando un percorso simile. Le storie sono organizzate anche con parole-chiave emotive (speranza, paura, incertezza), in modo che ognuno possa scegliere di leggere la storia che abbia la tonalità emotiva che più gli corrisponde. L’infertilità è ancora un’area di grande tabù nell’interazione sociale offline.  Lo spazio digitale consente di uscire dalla solitudine, di incontrare chi sta vivendo percorsi simili, di aprirsi a scenari diversi, o attingere a risorse inaspettate. La narrazione digitale si prende cura e accompagna nel percorso».

Dunque la comunicazione digitale supera in certi casi la medicina narrativa classica?

«Quando si parla di medicina narrativa si pensa subito a una relazione medico-paziente caratterizzata da maggiore vicinanza e attenzione. E spesso si tende ad associare questi aspetti a una relazione faccia a faccia. Le community digitali di pazienti mostrano come la  narrazione mediata da un computer o uno smartphone possa essere ugualmente efficace ed empatica.
Anche nei percorsi di cura lo schermo digitale non introduce maggiore spersonalizzazione nella relazione. Anzi, al contrario può facilitare l’ascolto. Nei tempi stretti delle visite in presenza, per esempio, i pazienti tendono a non ricordare con chiarezza quello che dice il medico, e sono confusi, talvolta in soggezione. Spesso faticano anche a riflettere sulle proprie esigenze e bisogni, leggendo la “fretta” nello sguardo del medico. L’uso della comunicazione digitale può invece consentire al medico e al paziente di scegliere i tempi della scrittura e dell’ascolto. Il paziente scrive quando si sente, quando riesce, quando ha il problema. Il medico legge quando può, e riesce anche meglio a condividere con l’intero team curante osservazioni e commenti. Stanno diventando sempre più numerose le startup e i dispositivi per il telemonitoraggio dei parametri clinici. Insomma, come dicevo, sono convinta  che il digitale sia fondamentale anche per rilanciare e valorizzare l’uso delle narrazioni nella pratica clinica».

Proprio con questa convinzione, Lei ha sviluppato un ambizioso progetto per mettere insieme gli aspetti positivi del  digitale e la medicina narrativa

«Il mio punto di partenza sono state le Linee di Indirizzo sulla medicina narrativa dell’Istituto Superiore di Sanità italiano del 2015, che considerano la narrazione lo strumento fondamentale “per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista” e  costruire una cura personalizzata. Mi sono chiesta: come possiamo farlo veramente? Ho così iniziato a lavorare con gli  informatici per sviluppare una piattaforma che potesse utilizzare le tecnologie digitali per l’uso delle metodologie narrative nei percorsi di cura.
Si chiama DNMLab, esiste dal 2016 ed è stata validata in una serie di studi relativi all’oncologia e alla cura dell’epilessia. Si tratta di un diario narrativo digitale che consente alla persona di condividere con il team curante bisogni, esigenze, aspettative. I questionari per la qualità di vita mirano a rilevare gli effetti negativi dei farmaci, ma in modo standard e confrontabile. Con l’integrazione del diario narrativo digitale, possiamo rilevare l’impatto personalizzato degli effetti collaterali per ogni paziente, considerando la sua biografia, e capire anche quali risorse positive la persona sta sviluppando, o vorrebbe sviluppare, grazie al supporto dei curanti».

E cosa dicono i risultati?

«I risultati degli studi sono promettenti. I pazienti riescono a condividere aspetti importanti che non avevano potuto condividere in altri modi. Anche i giudizi dei curanti sono molto positivi, ma emergono criticità per l’applicazione effettiva, una volta terminato lo studio pilota. La mancanza del tempo necessario e delle risorse viene ancora oggi usata in modo difensivo. Credo, però, che il vero  problema sia legato al fatto che i curanti hanno ancora difficoltà a vedere la persona, oltre la malattia. Su questo bisogna lavorare molto, già a partire proprio dalla formazione universitaria, con corsi come questo».

Articolo di Valeria Camia su Ticino Scienza

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