Articolo di Eugenio Santoro su Sole 24 Ore Sanità
Secondo un’indagine coordinata da Isabella Cecchini di Gfk Eurisko, presentata in un convegno organizzato recentemente dall’ Irccs Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri, in collaborazione con Pubblicità Progresso, dal titolo “Comunicare e promuovere la salute ai tempi dei social media”, sono 11,5 milioni gli italiani (il 42% degli adulti) che cercano su internet informazioni che riguardano la salute, la cura e le patologie.
Internet (e con esso i social media) si colloca in terza posizione tra le fonti principalmente impiegate dai cittadini, subito dopo il medico di famiglia e lo specialista. Che l’informazione sanitaria debba passare anche attraverso i social non lo dicono solo i numeri (un recente rapporto del Pew research center indica che 6 americani su 10 li usano per informarsi) ma è suggerito anche da diverse organizzazioni sanitarie (tra le quali l’Organizzazione mondiale della Sanità e lo stesso ministero della Salute che in proposito ha stilato qualche anno fa delle specifiche linee guida).
Ma i social media sono lo strumento più adatto? Per come sono strutturati, gli utenti dei social media sono vittime del confirmation bias, quel meccanismo in base al quale siamo portati a leggere e a credere a quei “post” o ai quei “tweet” che confermano le nostre convinzioni già consolidate.
Secondo i dati presentati da Walter Quattrociocchi dell’Imt Alti Studi di Lucca, passare dall’informazione alla teoria del complotto è un attimo. Più si cerca, attraverso un razionale scientifico basato sulle prove di efficacia e sulla Evidence based medicine, di convincere sui social media i “complottisti”, più questi si convincono della bontà della loro tesi.
Per fortuna coloro che appartengono a questa categoria sono solo una piccola minoranza, spesso però molto militante.
Una comunicazione efficace sui social media dovrebbe pertanto essere rivolta a coloro (e sono la maggioranza) che un’opinione su specifici argomenti sanitari ancora non se la sono fatta, e che, supportati da una informazione inappuntabile dal punto di vista scientifico e da un linguaggio che punti anche sull’emotività, si facciano loro stessi promotori di messaggi corretti sulla rete.
Sarà per la teoria del confirmation bias oppure per l’avversione tutta italiana da parte delle istituzioni pubbliche all’adozione delle nuove tecnologie (in particolare quelle che riguardano la comunicazione, come recentemente dimostrato dall’Osservatorio Innovazione digitale in Sanità del Politecnico di Milano o come recentemente discusso durante il Forum Pa), ma il numero di Aziende sanitarie locali (oggi Asst) stenta a decollare.
Uno studio presentato al convegno da Alessandro Lovari del Dipartimento PolComIng dell’Università di Sassari ha infatti stimato che solo il 53% delle Asst è presente su almeno una piattaforma di social media, con una certa preferenza per YouTube (usato da circa il 50 per cento delle strutture che usano i social media). continua a leggere