In questo testo di Fabrizio Consorti vengono rapidamente presentati alcuni degli sviluppi tecnologici più recenti in medicina, connessi con la robotica e l’Intelligenza Artificiale. Essi vengono analizzati alla luce delle correnti di pensiero post-umanista e della conferenza sulla “Questione della tecnica” di Martin Heidegger.
Articolo di Fabrizio Consorti* su Medicina e Cultura, n° 4 – Gennaio 2019
Umanesimo e post-umanesimo
Da secoli gli esseri umani sono impegnati in vario modo nella riflessione circa la propria natura e il proprio posto nel mondo, nel tentativo di dare senso a tutto ciò che li circonda. A questo servirono le pitture rupestri preistoriche, le narrazioni mitologiche che formano la radice culturale di tutte le culture umane e poi tanto pensiero filosofico e produzione artistica, fino ai giorni nostri. Si parla quindi di umanesimo non solo per intendere un periodo storico europeo ben definito, tra il 14° e il 15° secolo (il termine è però di origine ottocentesca), ma anche più genericamente per indicare qualsiasi orientamento filosofico e culturale che riconosca la centralità e la speciale dignità dell’uomo nel mondo. Pur con interpretazioni molto diverse, spesso divergenti, nessuno aveva mai posto in questione la speciale natura dell’uomo nel confronto con tutto il resto della realtà, fino alla fine del ‘900. Per la convergenza di molti sviluppi scientifici e culturali diversi (come esempi non esaustivi cito la teoria dei sistemi, la riflessione antropologica di alcune teoriche del femminismo, le neuroscienze, la genomica e le altre – omiche, l’evoluzione tecnologica) l’uomo inizia ad essere visto come un elemento tra gli altri, privo di centralità. Si sviluppa così a partire dalla consapevolezza dei limiti dei precedenti presupposti antropocentrici e umanistici, una eterogenea corrente di pensiero indicata genericamente come post-umanesimo. Al suo interno in realtà albergano visioni molto diverse, accomunate però dall’idea che le tradizionali rappresentazioni dell’uomo siano ormai insufficienti.
Non si pensi che si tratta di un pensiero di nicchia: mentre è per specialisti la riflessione più propriamente filosofica, opere di grandissima diffusione popolare come la letteratura e la filmografia di fantascienza (o più propriamente cyberpunk) come ad esempio “Blade Runner” o “Matrix” o “Io, robot” rappresentano la riflessione e l’elaborazione culturale sui confini sempre più sottili che esistono fra l’uomo e le “macchine” che egli è in grado di costruire, fra la realtà e le rappresentazioni della realtà di cui siamo capaci.
In questo scritto vorrei brevemente mettere a fuoco alcuni degli sviluppi tecnologici che stano avendo un impatto sempre maggiore in medicina e proporre un primo embrionale abbozzo di riflessione sul significato che essi hanno per la nostra professione, alla luce di un fondamentale contributo che Martin Heidegger ha dato in una sua conferenza del 1953 dedicata alla “Questione della tecnica”[1].
La robotica in medicina
L’uso di tecnologia robotica è in costante estensione in molti campi diversi della medicina clinica. A fianco delle applicazioni in ambito chirurgico, forse le più note, i robot trovano un utilizzo molto efficace in riabilitazione. Infine sta avanzando l’uso cosiddetto sociale dei robot, che trova impiego nelle residenze socio-sanitarie, nelle fasi iniziali ed intermedie delle demenze e nei disturbi dello spettro del’autismo.
I robot in chirurgia hanno lo scopo di superare i limiti della chirurgia laparoscopica convenzionale (gamma limitata di movimento degli strumenti e ridotta destrezza) attraverso una ergonomia avanzata e l’assenza di tremolio. Inoltre consentono di avere estremità facilmente sostituibili al termine dello strumento usato e sistemi ottici 3D.
Una meta-analisi di 27 studi randomizzati controllati di alta qualità, con una media di 64 pazienti ciascuno, comprendente chirurgia generale, urologia e ginecologia, ha dimostrato una minor efficienza della chirurgia robotica sulla mini-invasiva tradizionale quanto al tempo operativo totale e netto, al costo, al tasso di conversione in chirurgia open e alle complicanze (intra e postoperatorie), mentre la robotica è risultata migliore quanto alle perdita di sangue e alle trasfusioni necessarie. Se si considerano invece i campi specifici, alcuni interventi di urologia e ginecologia rappresentano condizioni di particolare vantaggio per il robot chirurgico, perché si lavora nella ristrettezza del piccolo bacino.
I cosiddetti robot chirurgici utilizzano la tecnologia robotica solo quanto alle modalità di trasferimento del movimento delle mani dell’operatore dai manipoli di controllo ai terminali dei braccetti robotici. Essi non hanno quindi alcun grado di autonomia, come ci si aspetterebbe da un “robot”, e rappresentano il grado più basso in una scala di 6 livelli progressivi di autonomia funzionale descritti per un robot. La scala prevede poi la capacità del robot di suggerire o facilitare gesti, di eseguirli solo dopo consenso dell’operatore, di eseguire autonomamente singoli atti ed infine procedure complesse, sotto controllo o in piena autonomia. Sono in corso ricerche avanzate volte a descrivere formalmente i gesti di un chirurgo (la cosiddetta segmentazione) affinché un robot possa apprenderli e riprodurli, iniziando dai più semplici, come il gesto di passare un punto di sutura. Anche la capacità di riconoscimento ottico delle strutture anatomiche sta evolvendo rapidamente, considerando l’attuale capacità di un normale smartphone commerciale di riconoscere i volti nello scattare una fotografia.
La riabilitazione neuro-motoria offre scenari di grande interesse pratico ma anche concettuale. L’uso di esoscheletri per la riabilitazione dopo traumi spinali si sta rivelando estremamente efficace. L’armatura indossata sugli arti inferiori fa eseguire movimenti al paziente, in maniera ripetitiva e protetta, favorendo attraverso le afferenze propriocettive l’emergenza di nuovi centri di controllo spinale del movimento (central pattern generators), che possono ricondurre il paziente ad eseguire attività automatiche come il camminare. Un capitolo diverso sono gli arti artificiali con interfacce neurali. È notizia di pochi mesi fa e vanto della ricerca italiana la sperimentazione di un braccio con mano robotizzata, che si interfaccia con i nervi di un paziente amputato. Il prototipo è stato progettato e realizzato dai laboratori dell’INAIL ed ha dimostrato grande sensibilità e precisione di presa degli oggetti. La mente corre subito all’immagine filmica di Robocop, individuo in parte biologico, in parte meccanico e cibernetico: ancora umano?
I cosiddetti “robot sociali” sono dispositivi in parte guidati in remoto da un operatore e in parte autonomi, in grado di eseguire compiti molto diversi. In autonomia essi sono in grado di muoversi in ambienti confinati – come un reparto o una residenza socio-sanitaria – ed esercitare alcune interazioni coi pazienti, come misurare i parametri vitali (se i pazienti indossano i sensori) o intrecciare semplici dialoghi, ad esempio per ricordare l’assunzione di farmaci. I robot sociali sono di regola dotati di un monitor touch screen, attraverso il quale il paziente può interagire per eseguire in maniera assistita attività come telefonare, ascoltare la lettura di libri o musica. I robot sociali si sono mostrati particolarmente efficaci nel migliorare le capacità di comunicazione e di imitazione di gesti in bambini con disturbi dello spettro autistico, come se venissero percepiti dai piccoli pazienti come meno ansiogeni in quanto più facilmente prevedibili. È facile immaginare come lo sviluppo dei robot sociali procederà di pari passo allo sviluppo delle tecniche di Intelligenza Artificale (IA), che consentirà interazioni sempre più sofisticate e “umane”.
Virtualità e Intelligenza Artificiale
Sofia si allontana per prendere un giocattolo nuovo che mi vuole mostrare e lascia campo libero alla piccola Aurora, che mi punta con lo sguardo concentrato del predatore che ha avvistato una preda e si avvicina gattonando veloce, allunga la mano e… giù… sono a terra. Sento la voce di Sofia che squittisce divertita “Rory! Che hai fatto! Ora ti tiro su, nonno…”. Il punto è che non sono nel salotto di mio figlio con le mie nipoti, ma a 700 km di distanza. Durante la solita videochiamata serale, Aurora, 8 mesi, ha cercato di “prendermi” attraverso lo schermo del cellulare di sua madre e lo ha fatto cadere dal divano, dove era appoggiato per riprendere il salotto e consentirmi di “giocare” con le bambine. Sofia, due anni e mezzo, non ha detto “Ora tiro su il cellulare” ma “Ora ti tiro su, nonno” perché per lei io CI SONO veramente. Questo piccolo esperimento spontaneo mi sembra illustri bene che i millennials – pur non essendo fisiologicamente diversi dalla nostra generazione – sviluppano abilità diverse, a cominciare dalle primitive spazio-temporali. Per loro la rappresentazione della realtà è una forma concreta di realtà, a tutti gli effetti.
Tra le competenze previste per la formazione in laparoscopia alla McGill University in Canada, uno dei centri più avanzati nella ricerca in medical education, figura la capacità di “percepire la profondità”. Un chirurgo della mia generazione, formato alla chirurgia open, è abituato alla tridimensionalità della visione diretta delle strutture anatomiche, che può anche toccare. In laparoscopia le tre dimensioni sono rappresentate in 2D sullo schermo del monitor, perciò è richiesta la capacità di immaginare mentalmente la terza dimensione, quella della profondità.
Un altro esempio del rapporto sottile che c’è tra realtà e rappresentazione della realtà è dato dalle tecniche di imaging. Siamo spontaneamente portati ad interpretare quelle immagini sulla base dell’anatomia che conosciamo, che è però l’anatomia macroscopica ottocentesca del cadavere dissezionato. Tra il corpo vivente del paziente e la rappresentazione che ne fa una TC o una RMN c’è l’interposizione della tecnologia, che produce rappresentazioni che spesso hanno una relazione problematica con la realtà, se come riferimento per questo termine intendiamo le rappresentazioni anatomiche dei testi di anatomia e se la tecnologia ci mostra invece non solo la morfologia, ma anche la funzione. Infine, se dalla rappresentazione di strutture materiali ci spostiamo alla rappresentazione della conoscenza, entriamo nel mondo dell’IA e si aprono ulteriori prospettive, in qualche misura vertiginose.
Sarebbe un errore pensare che si tratta di prospettive future e fantascientifiche. Esiste già una notevole quantità di IA nel nostro mondo quotidiano, che ci aiuta a trovare la strada col navigatore verso il ristorante più vicino, a far scattare una frenata di emergenza in auto se ci siamo distratti, a vendere prodotti o a vincere le elezioni, con metodi che il Garante non approverebbe, ma questo è il nostro mondo. In medicina l’utilizzo di tecniche di IA (reti neurali, machine learning, big data analytics) potrebbe aprire prospettive che forse fatichiamo a concepire, abituati come siamo al trial clinico come sorgente delle prove di efficacia e ai modelli statistici lineari su cui è basato. Il lato oscuro di questa prospettiva è la progressiva perdita di controllo sul modo con cui vengono prese le decisioni, fondate in questa ottica sull’”emergenza” da grandi moli di informazione di proprietà e pattern di cui potrebbe essere difficile comprendere la logica. In questo senso, quel tipo di Intelligenza si comporterebbe in maniera diversa dalla nostra, che non sarebbe perciò più l’unica Intelligenza presente sul pianeta.
Questo ci conduce all’ultima parte di questa riflessione.
Heidegger e il disvelamento
Nella conferenza del 1953 sulla “Questione della tecnica”, già citata, il filosofo tedesco torna sul tema del significato della tecnologia nel mondo contemporaneo, indicandola come un modo del “disvelamento”, cioè uno dei modi con cui la verità sul mondo viene condotta fuori dal nascondimento. Heidegger indica come sinonimi di disvelamento la parola greca aletheia e la parola latina veritas, entrambe traducibili come verità. Cosa dunque la tecnica svela di vero sul periodo storico in cui il filosofo scrive?
Essa svela che le risorse della natura sono impiegate solo in modo strumentale, come riserve di energia da immagazzinare, trasformare, riusare. In questa imposizione c’è un pericolo: se “la natura si rappresenta come una calcolabile concatenazione causale di forze, può bensì permettere constatazioni esatte, ma proprio a causa di questi successi, può rimanere il pericolo che in tutta questa esattezza il vero si sottragga”[2]. Il Reno allora non è più altro che una massa di acqua in movimento che può muovere le turbine di una centrale idro-elettrica. Heidegger chiede che si passi dall’impiegare al custodire, recuperando il significato originario di technè, che è legato alla produzione artistica e del bello.
Applicando lo stesso metodo di ragionamento, cosa può disvelarci sul nostro mondo la tecnologia odierna, così diversa dal quella del 1953? Mi permetto di suggerire alcune possibili tracce di riflessione: la tecnologia contemporanea disvela la natura frammentata, multipla e sociale delle nostre identità, disvela la prossimità stretta che esiste fra realtà e sua rappresentazione, disvela l’ambizione ad oltrepassare i limiti della nostra condizione per essere “altro” o generare un “altro da noi”. Non credo siano elementi nuovi della nostra essenza, ma non erano rivelabili senza le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Come esseri umani e come medici non dovremmo temere il nuovo ma dovremmo approfondire queste riflessioni, affinché sia possibile fare ciò che raccomanda una delle disposizioni del Manifesto del Transumanesimo “Non puoi combattere la grande onda, puoi solo cavalcarla”, e che riecheggia il verso di Hölderlin che cita Heidegger nella sua conferenza “Là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.
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[1] M. Heidegger, La questione della tecnica (1953), in Id., Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Milano 1976, p. 9
[2] M. Heidegger, La questione della tecnica (1953), in Id., Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Milano 1976, p. 20
*Fabrizio Consorti è specialista in chirurgia generale, ricercatore universitario presso il dipartimento di Scienze Chirurgiche della Sapienza Università di Roma, dove insegna Metodologia Clinica e Chirurgia Generale nei corsi di laurea in Medicina e Infermieristica. Ha inoltre dedicato particolare attenzione allo studio delle applicazioni tecnologiche in medicina, partecipando a diversi progetti nazionali ed europei. Infine si occupa attivamente di ricerca sull’innovazione didattica. È membro dell’Association for Medical Education in Europe (AMEE) e past-president della Società Italiana di Pedagogia Medica (SIPeM).